La quarantena è definita come la segregazione e il monitoraggio di persone, animali e cose potenzialmente esposte a trattenere o portare con sé i germi di una malattia contagiosa. L’obiettivo consiste nel tenere sotto controllo il loro stato di salute, riducendo al contempo il rischio di ulteriore contagio grazie alla diminuzione degli spostamenti e dei contatti interpersonali (Centers for Disease Control and Prevention, 2017). La parola quarantena fu usata per la prima volta a Venezia nel 1127 a fronte di alcuni casi di lebbra e in risposta alla Morte Nera; nei fatti, però, fu realmente attuata solo 300 anni dopo, quando il Regno Unito la impose per combattere la diffusione della peste (Newman, 2012). Ai giorni d’oggi, si ripropone come strumento contro l’epidemia del coronavirus 2019 (COVID-19).
La quarantena è spesso un’esperienza spiacevole. La separazione dai propri cari unita a perdita della libertà, incertezza sullo stato della malattia e noia possono talvolta creare anche effetti drammatici. Sono stati segnalati casi di suicidio (Barbisch, Koenig and Shih, 2015), esplosioni di rabbia e azioni legali avviate in seguito all’imposizione della quarantena (Miles, 2015). I benefici in termini sanitari devono quindi essere attentamente valutati e messi in relazione ai possibili costi psicologici, cercando di ridurli il più possibile (Rubin, 2020).
Qual è nel dettaglio l’impatto psicologico della quarantena sulla salute mentale?
Quali sono i fattori che contribuiscono o mitigano i possibili effetti negativi?
Una review che prende in considerazione soggetti con SARS, Ebola, influenza pandemica H1N1 del 2009 e 2010, Sindrome Respiratoria Mediorientale e influenza equina ci permette di fare chiarezza (Brooks et., 2020).
L’impatto psicologico della quarantena
E’ chiaro che la quarantena lasci delle tracce visibili in termini di distress e ansia (Jeong et al., 2016; Liu et al., 2012), specialmente dovuti alla noia e all’isolamento. Tali effetti sono riscontrabili anche in persone che non hanno mai mostrato segni di difficoltà psicologica precedenti (Cukor et al., 2011). Parecchi studi evidenziano un’alta prevalenza di sintomi disturbo psicologico, senza particolari differenze tra chi sceglie volontariamente di mettersi in quarantena e chi è costretto a viverla come un’imposizione. Nello specifico, si sottolineano: disturbi emotivi (Mihashi, et al., 2009), depressione (Yoon et al., 2016), stress (Hawryluck et al., 2004), umore basso (Di Giovanni et al., 2004), irritabilità, insonnia, sintomi post-traumatici da stress, (Lee et al., 2005) ed esaurimento emotivo (Marjanovic, Greenglass and Coffey, 2007).
In particolare, soggetti in quarantena a causa del contatto ravvicinato con persone potenzialmente infettanti hanno riferito paura, nervosismo e tristezza oltre che confusione, rabbia, intorpidimento e insonnia indotta dall’ansia. Pochi hanno riportato invece sentimenti positivi (Braunack-Mayer et al., 2013; Caleo et al., 2018; Cava et al., 2005; Desclaux et al., 2017; Di Giovanni et al., 2004; Pan, Chang and Yu, 2005; Pellecchia, 2015; Wang et al., 2011). Da un ulteriore confronto emerge che il solo fatto di essere stati in quarantenapossa essere considerato un fattore predittivo di disturbo da stress acuto e depressivo, anche a distanza di 3 anni sia per adulti che bambini (Sprang and Silman, 2013). Continuano infatti a persistere cambiamenti a livello comportamentale (ad esempio, lavaggio attento e prolungato delle mani e l’elusione della folla) che ritardano di molti mesi il ritorno alla normalità (Cava et al., 2005). Un’ eccezione è fatta per i soggetti più giovani (ad esempio, gli universitari), i quali non presentano differenze significative in termini di sintomi post-traumatici da stress o problemi generali di salute mentale, forse favoriti da minori responsabilità rispetto agli adulti lavoratori (Wang et al., 2011).
Un discorso a parte merita di essere fatto nei confronti delle professioni sanitarie (Liu et al., 2012; Wu et al., 2009). I professionisti della salute possono trovarsi in una duplice situazione: continuare la loro attività lavorativa oppure essere costretti alla quarantena, subendo l’allontanamento dal loro posto di lavoro. In quest’ultimo caso è possibile che si sviluppino alti livelli di preoccupazione nei confronti dei colleghi in condizioni di sotto-personale rispetto all’ingente mole di lavoro (Brooks et al., 2018). Secondo alcuni studi, nel post-quarantena il personale sanitario è significativamente più propenso a riferire stanchezza e comportamenti di evitamento nei confronti di persone e luoghi affollati (specialmente con il distacco da persone che tossiscono o starnutiscono) e ansia nei rapporti con pazienti febbrili, fino alla riduzione al minimo dei contatti diretti. In aggiunta, si rilevano sintomi di irritabilità, insonnia, scarsa concentrazione e indecisione, deterrenza delle prestazioni lavorative e riluttanza al lavoro, anche al punto di prendere in considerazione le dimissioni dal proprio posto lavorativo (Sprang and Silman, 2013; Marjanovic, Greenglass and Coffey, 2007). In alcuni casi, sono stati segnalati anche abuso di alcol o sintomi di dipendenza (Wu et al., 2008).
Predittori di impatto psicologico pre-quarantena
Ci sono evidenze contrastanti per stabilire se le caratteristiche individuali (ad esempio, i dati demografici) possano essere considerati predittori dell’impatto psicologico negativo della quarantena. Uno studio di Taylor e colleghi (2008) ha evidenziato che la giovane età(16-24 anni), un livello scolastico inferiore, il genere femminile e avere un figlio rispetto a nessun figlio (sebbene avere tre o più figli sia considerato protettivo) possano essere predittori di un negativo impatto psicologico. Storie di malattia psichiatrica sono inoltre associate all’esperienza di ansia e rabbia fino a 4–6 mesi dopo (Jeong et al., 2016).
Quali sono gli eventi stressogeni durante la quarantena?
Durata della quarantena
Periodi più lunghi di quarantena sono stati associati in particolare a problemi di salute mentale, sintomi post-traumatici da stress, comportamenti di evitamento (Jeong et al., 2016; Reynolds et al., 208) e rabbia (Marjanovic, Greenglass and Coffey, 2007). Sebbene la durata non sia sempre chiara, uno studio (Jeong et al., 2016) ha dimostrato che soggetti in quarantena per più di 10 giorni mostrano sintomi di stress post-traumatico significativamente più alti rispetto a coloro che vivono la quarantena per meno di 10 giorni.
Paure di infezione
La paura per la propria salute e/o la paura di infettare gli altri, in particolare i propri familiari, sono due tra i timori più presenti (Bai et al., 2004), con preoccupazione acuta in presenza di sintomi fisici potenzialmente correlati all’infezione (Desclaux et al., 2017). In generale, le persone maggiormente preoccupate per la propria salute e quella degli altri risultano essere donne incinte e donne con bambini piccoli (Braunack-Mayer et al., 2013).
Frustrazione e noia
Il confinamento, la perdita della solita routine e il ridotto contatto sociale e fisico sono stati spesso indicati come causa di noia, frustrazione e senso di isolamento, percepiti altresì come angoscianti (Blendon et al., 2004; Braunack-Mayer et al., 2013; Cava et al., 2005; Hawryluck et al., 2004; Reynolds, 2008; Robertson et al., 2004; Wilken et al., 2017). Questa frustrazione è legata principalmente alla perdita delle proprie attività quotidiane come fare acquisti per le necessità di base (Hawryluck et al., 2004) o prendere parte alle attività di sociali anche online tramite telefono o Internet (Jeong et al., 2016).
Forniture inadeguate
Avere scorte di approvvigionamenti di base inadeguate (ad es. cibo, acqua, vestiti o alloggio) durante la quarantena è fonte di frustrazione (Blendon et al., 2004; Wilken et al., 2017). In particolare, la fornitura insufficiente o intermittente di cibo, acqua, e materiale anti-contagio (mascherine, guanti e termometri) sono associati a sentimenti di ansia e rabbia anche 6 mesi dopo (Jeong et al., 2016). Non essere in grado di ricevere cure mediche regolari e le prescrizioni necessarie possono rappresentare un ulteriore problema.
Informazioni inadeguate
La scarsità di informazioni e la non chiarezza sulle azioni da intraprendere da parte delle autorità di sanità pubblica possono essere fattori di stress (Braunack-Mayer, 2013; Cava et al., 2005; Di Giovanni et al., 2003; Pellecchia et al., 2015; Robertson et al., 2004). La confusione è spesso causata dalle differenze di approccio e contenuto dei vari messaggi come risultato della scarsa coordinazione tra le diverse giurisdizioni (DiGiovanni et al., 2003), con il rischio che le persone si prospettino scenari disastrosi (Desclaux et al., 2017). Allo stesso modo, secondo Reynolds e colleghi (2008), tale confusione comporta la difficoltà percepita nell’adempiere ai protocolli a seguito della mancanza di linee guida e/o motivazioni chiare.
Gli stress post-quarantena
Finanza
La quarantena porta con sé la chiusura di diverse attività professionali; di conseguenza, perdite finanziarie e forti preoccupazioni sono inevitabili, con effetti a lungo. Negli studi esaminati, la perdita finanziaria crea un grave disagio socioeconomico (Pellecchia et al., 2015) ed è un fattore di rischio per il manifestarsi di rabbia, ansia, depressione e disturbi post-traumatici (Jeong et al., 2016; Mihashi et al., 2009; Hawryluck et al., 2004). Durante la quarantena a causa dell’influenza equina, uno studio su un gruppo di proprietari di cavalli (Taylor et al., 2008) ha rilevato più del doppio delle probabilità di misurare livelli di difficoltà emotiva elevati rispetto a coloro che non hanno un reddito legato alla propria attività. Allo stesso modo, un altro studio (Desclaux et al., 2017) su soggetti in quarantena a causa di un potenziale contatto da Ebola ha evidenziato che, sebbene i partecipanti avessero ricevuto assistenza finanziaria, alcune persone hanno ritenuto che l’importo fosse insufficiente e che fosse arrivato troppo tardi.
Stigmatizzazione
Le persone in quarantena vengono spesso evitate e allontanate, vittime di giudizi negativi e paure (Newman, 2012; Wester & Giesecke, 2019; Wilken, Pordell & Goode, 2017). In uno studio condotto da Desclaux e colleghi (2017) in Senegal, alcuni operatori sanitari sono arrivati al punto di rinunciare a rientrare al lavoro a causa delle forti paure sviluppate dai familiari rispetto a un nuovo contagio. Le tensioni intra-familiari sono così motivo di ostacolo alla ripresa della condotta di vita precedente di questi operatori sanitari, che hanno deciso di cambiare completamente il loro stile di vita, con tutto ciò che questo può significare in termini psicologici. Molte persone diventano infatti dipendenti dalle loro famiglie per la mancata possibilità di autonomia, lasciando spazio a un clima difficile, spesso ricco di conflitti.
Le strategie possibili: il segreto dell’Altruismo
In merito alle condizioni e alle difficoltà emerse, alcune semplici ma indispensabili indicazioni possono essere messe tempestivamente in atto. Devono essere implementate forme di supporto psicologico, intervenendo anche preventivamente per aiutare ciascuno di noi a fronteggiare nel miglior modo possibile le difficoltà attuali così come quella che potenzialmente verranno. Pensiamo semplicemente al ritorno al lavoro e a quali conseguenze in termini emotivi può comportare. Nel tempo presente, alcune semplici strategie volte al benessere psicologico possono essere messe in atto. Dedicare del tempo alla cura dei propri cari è importante, così come non perdere di vista se stessi e i propri bisogni. E’ possibile inoltre che le tensioni familiari accrescano, in alcuni casi alimentate dalla complessa gestione dei figli a casa da scuola. Il rilassamento può essere, ad esempio, un ottimo spazio per stare con se stessi, allentando le frustrazioni e possibili ansie quotidiane. Un occhio di riguardo deve inoltre essere rivolto ai professionisti sanitari, le cui conseguenze negative da un punto di vista psicologico sono maggiormente significative. In questo periodo così delicato, psicologi e psicoterapeuti sono valide figure di riferimento a cui potersi rivolgere. Molteplici forme di contatto online (telefono, Skype, WhatsApp) sono attualmente gli strumenti più utilizzati per interventi di supporto e sostegno anche a distanza.
Avere conoscenze chiare e complete sulla malattia e sulla possibilità di contagio è indubbiamente un altro aspetto molto importante. Spesso i social media contribuiscono alla diffusione di notizie poco chiare, che creano ancora più confusione e turbamento (Person et al., 2004). E’ bene che siano divulgate solo le informazioni ufficiali del sistema sanitario, al fine non solo di promuovere forme di conoscenza corretta ma anche di dare indicazioni precise rispetto a come gestire eventuali sintomi. Il sistema sanitario ha inoltre l’importante compito di rispettare e far rispettare i giusti tempi di quarantena previsti, senza eccedere né tantomeno sottovalutare il periodo necessario. L’adesione a un programma ben pianificato permette di non incrementare il senso di frustrazione e demoralizzazione, facili conseguenze di un continuo prolungamento dei tempi di quarantena (Rona et al., 2007).
Vi sono inoltre molteplici strumenti e linee guida spendibili nel quotidiano, in primis il mantenimento di buone e costanti comunicazione con familiari e amici tramite telefono e social networks e di attività ricreative (Manuell & Cukor., 2011). Poter far conto su altre persone che vivono le stesse difficoltà aiuta a sentirsi meno soli e maggiormente compresi (Pan, Chang & Yu, 2005). Questo aspetto di cura e attenzione individuale è essenziale, sia sulla popolazione generale che nei confronti di alcune categorie specifiche.
Teniamo presente che il modo di vivere e fronteggiare la quarantena dipende inevitabilmente dalle risorse che ciascuno di noi possiede, motivo per cui persone con redditi insufficienti e/o che subiscono ingenti perdite per la chiusura della propria attività (lavoratori autonomi e mancanza di un congedo retribuito) potrebbero richiedere livelli supplementari di sostegno. Agire tempestivamente significa allora assicurarsi che ognuno abbia gli adeguati approvvigionamenti per soddisfare i bisogni primari di base (ad esempio, cibo, acqua e farmaci necessari). Sono raccomandabili rimborsi finanziari ove possibile e programmi sviluppati per fornire sostegno finanziario. Se possibile, i datori di lavoro potrebbero adottare un approccio proattivo per consentire ai dipendenti di lavorare da casa, al fine sia di evitare forti perdite finanziarie e i vissuti di noia. Pur consapevoli che il personale potrebbe non essere al massimo delle proprie capacità produttive, potrebbero comunque nascere vantaggi dal supporto sociale remoto tra colleghi (Manuell, M. E., & Cukor, 2011).
In conclusione, non tutti vivono la quarantena nelle medesime condizioni socio-sanitarie. Ognuno di noi è allora chiamato a un gesto di altruismo, anche solo partendo dal vivere la quarantena come scelta di protezione verso di sé e l’altro, specialmente rispetto alle categorie più a rischio (anziani e persone con patologie pregresse) (Liu, 2012; Wu, Fang & Guan, 2009). Rafforzare questo senso di altruismo è il primo passo per vivere la quarantena nel miglior modo possibile, rileggendola come un atto di Cura per Sé e l’Altro.
References
Bai, Y., Lin, C. C., Lin, C. Y., Chen, J. Y., Chue, C. M., & Chou, P. (2004). Survey of stress reactions among health care workers involved with the SARS outbreak. Psychiatric Services, 55(9), 1055-1057.
Barbisch, D., Koenig, K. L., & Shih, F. Y. (2015). Is there a case for quarantine? Perspectives from SARS to Ebola. Disaster medicine and public health preparedness, 9(5), 547-553.
Blendon, R. J., Benson, J. M., DesRoches, C. M., Raleigh, E., & Taylor-Clark, K. (2004). The public’s response to severe acute respiratory syndrome in Toronto and the United States. Clinical infectious diseases, 38(7), 925-931.
Braunack-Mayer, A., Tooher, R., Collins, J. E., Street, J. M., & Marshall, H. (2013). Understanding the school community’s response to school closures during the H1N1 2009 influenza pandemic. BMC public health, 13(1), 344.
Brooks, S.K., Dunn, R., Amlô,t R., Rubin, G.J., Greenberg, N. (2018). A systematic, thematic review of social and occupational factors associated with psychological outcomes in healthcare employees during an infectious disease outbreak. J Occup Environ Med; 60: 248–57.
Brooks, S. K., Webster, R. K., Smith, L. E., Woodland, L., Wessely, S., Greenberg, N., & Rubin, G. J. (2020). The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence. The Lancet.
Caleo, G., Duncombe, J., Jephcott, F., Lokuge, K., Mills, C., Looijen, E., … & Lamin, M. (2018). The factors affecting household transmission dynamics and community compliance with Ebola control measures: a mixed-methods study in a rural village in Sierra Leone. BMC public health, 18(1), 248.
Cava, M. A., Fay, K. E., Beanlands, H. J., McCay, E. A., & Wignall, R. (2005). The experience of quarantine for individuals affected by SARS in Toronto. Public Health Nursing, 22(5), 398-406.Centers for Disease Control and Prevention. Quarantine and isolation. 2017. https://www.cdc.gov/quarantine/index.html (accessed Jan 30, 2020).
Cukor, J., Wyka, K., Jayasinghe, N., et al. (2011). Prevalence and predictors of posttraumatic stress symptoms in utility workers deployed to the World Trade Center following the attacks of September 11, 2001. Depress Anxiety; 28: 210–17.
Desclaux, A., Badji, D., Ndione, A. G., & Sow, K. (2017). Accepted monitoring or endured quarantine? Ebola contacts’ perceptions in Senegal. Social Science & Medicine, 178, 38-45.
Di Giovanni, C., Conley, J., Chiu, D., & Zaborski, J. (2004). Factors influencing compliance with quarantine in Toronto during the 2003 SARS outbreak. Biosecurity and bioterrorism: biodefense strategy, practice, and science, 2(4), 265-272.
Hawryluck, L., Gold, W. L., Robinson, S., Pogorski, S., Galea, S., & Styra, R. (2004). SARS control and psychological effects of quarantine, Toronto, Canada. Emerging Infectious Diseases, 10(7), 1206.
Jeong, H., Yim, H. W., Song, Y. J., Ki, M., Min, J. A., Cho, J., & Chae, J. H. (2016). Mental health status of people isolated due to Middle East Respiratory Syndrome. Epidemiology and health, 38.
Lee, S., Chan, L. Y., Chau, A. M., Kwok, K. P., & Kleinman, A. (2005). The experience of SARS-related stigma at Amoy Gardens. Social science & medicine, 61(9), 2038-2046.
Liu, X., Kakade, M., Fuller, C. J., Fan, B., Fang, Y., Kong, J., … & Wu, P. (2012). Depression after exposure to stressful events: lessons learned from the severe acute respiratory syndrome epidemic. Comprehensive psychiatry, 53(1), 15-23.
Manuell, M. E., & Cukor, J. (2011). Mother Nature versus human nature: public compliance with evacuation and quarantine. Disasters, 35(2), 417-442.
Marjanovic, Z., Greenglass, E. R., & Coffey, S. (2007). The relevance of psychosocial variables and working conditions in predicting nurses’ coping strategies during the SARS crisis: an online questionnaire survey. International journal of nursing studies, 44(6), 991-998.
Mihashi, M., Otsubo, Y., Yinjuan, X., Nagatomi, K., Hoshiko, M., & Ishitake, T. (2009). Predictive factors of psychological disorder development during recovery following SARS outbreak. Health Psychology, 28(1), 91.
Miles, S. H. (2015). Kaci Hickox: public health and the politics of fear. The American Journal of Bioethics, 15(4), 17-19.
Newman, K. L. (2012). Shutt up: bubonic plague and quarantine in early modern England. Journal of social history, 45(3), 809-834.
Pan, P. J., Chang, S. H., & Yu, Y. Y. (2005). A support group for home-quarantined college students exposed to SARS: Learning from practice. The Journal for Specialists in Group Work, 30(4), 363-374.
Pellecchia, U., Crestani, R., Decroo, T., Van den Bergh, R., & Al-Kourdi, Y. (2015). Social consequences of Ebola containment measures in Liberia. PLoS One, 10(12).
Person, B., Sy, F., Holton, K., et al. (2004). Fear and stigma: the epidemic within the SARS outbreak. Emerg Infect Dis; 10: 358–63.
Reynolds, D. L., Garay, J. R., Deamond, S. L., Moran, M. K., Gold, W., & Styra, R. (2008). Understanding, compliance and psychological impact of the SARS quarantine experience. Epidemiology & Infection, 136(7), 997-1007.
Robertson, E., Hershenfield, K., Grace, S. L., & Stewart, D. E. (2004). The psychosocial effects of being quarantined following exposure to SARS: a qualitative study of Toronto health care workers. The Canadian Journal of Psychiatry, 49(6), 403-407.
Rona, R.J., Fear, N.T., Hull, L., et al. (2007). Mental health consequences of overstretch in the UK armed forces: first phase of a cohort study. BMJ; 335: 603.
Rubin, G. J., & Wessely, S. (2020). The psychological effects of quarantining a city. Bmj, 368.
Sprang, G., & Silman, M. (2013). Posttraumatic stress disorder in parents and youth after health-related disasters. Disaster medicine and public health preparedness, 7(1), 105-110.
Taylor, M. R., Agho, K. E., Stevens, G. J., & Raphael, B. (2008). Factors influencing psychological distress during a disease epidemic: data from Australia’s first outbreak of equine influenza. BMC public health, 8(1), 347.
Wang, Y., Xu, B., Zhao, G., Cao, R., He, X., & Fu, S. (2011). Is quarantine related to immediate negative psychological consequences during the 2009 H1N1 epidemic?. General hospital psychiatry, 33(1), 75-77.
Wester, M. & Giesecke, J. (2019). Ebola and healthcare worker stigma. Scand J Public Health; 47: 99–104.31
Wilken, J. A., Pordell, P., Goode, B., Jarteh, R., Miller, Z., Saygar, B. G., … & Yeiah, A. (2017). Knowledge, attitudes, and practices among members of households actively monitored or quarantined to prevent transmission of Ebola Virus Disease—Margibi County, Liberia: February-March 2015. Prehospital and disaster medicine, 32(6), 673-678.
Wu, P., Fang, Y., Guan, Z., et al. (2009). The psychological impact of the SARS epidemic on hospital employees in China: exposure, risk perception, and altruistic acceptance of risk. Can J Psychiatry; 54: 302–11.
Wu, P., Liu, X., Fang, Y., Fan, B., Fuller, C. J., Guan, Z., … & Litvak, I. J. (2008). Alcohol abuse/dependence symptoms among hospital employees exposed to a SARS outbreak. Alcohol & Alcoholism, 43(6), 706-712.
Yoon, M. K., Kim, S. Y., Ko, H. S., & Lee, M. S. (2016). System effectiveness of detection, brief intervention and refer to treatment for the people with post-traumatic emotional distress by MERS: a case report of community-based proactive intervention in South Korea. International journal of mental health systems, 10(1), 51.
Uno gli aspetti psicologicamente più difficili da affrontare quando ci si ammala di cancro, è sicuramente la caduta dei capelli. I capelli sono parte integrante dell’immagine corporea di sé e la loro caduta espone spesso a difficoltà non solo personali ma anche sociali. Una persona completamente priva di capelli rimanda immediatamente, nell’immaginario collettivo, alla malattia. Spesso la caduta dei capelli è vissuta dai malati come una sorta di immediata dichiarazione al mondo: “sono malata, ho il cancro”.
Molti pazienti, inoltre vivono la caduta come una perdita di bellezza e appeal sessuale. I giovani e le donne sembrano essere le categorie di pazienti più soggette a disagi psicologici derivanti da questo effetto collaterale. Questi disagi si possono manifestare attraverso sentimenti anche forti di rabbia, ansia, cattivo umore fino alla depressione.
Tuttavia, ci sono pazienti che non vivono la caduta dei capelli in modo drammatico, perché vedono l’evento come “il minore dei mali” rispetto alle difficoltà e alle ansie che l’ammalarsi di cancro provoca e vedono la perdita dei capelli come la conseguenza di una terapia molto forte, ma che li aiuterà e a stare meglio e guarire.
Ovviamente no, ciò che ne causa la perdita sono gli effetti collaterali di alcune delle terapie anti tumorali più diffuse. Vediamo in modo sintetico quali:
Qualsiasi tipo di terapia dobbiate affrontare il vostro oncologo sarà in grado di darvi tutte le informazioni necessarie anche in merito alla caduta dei capelli. Affidatevi ai professionisti e non abbiate timore di chiedere!
I capelli, di solito iniziano a cadere nel giro di alcune settimane dall’inizio della terapia (in linea generale sia con la chemioterapia sia con la radioterapia). La caduta inizia tipicamente con la caduta di alcune ciocche di capelli sia mentre si lavano o si spazzolano sia durante la notte. La perdita dei capelli può essere a chiazze o coinvolgere, progressivamente, tutta la testa. In alcuni rarissimi casi la caduta è molto repentina: nel giro di un paio di giorni i pazienti restano completamente calvi
Nella stragrande maggioranza dei casi i capelli ricrescono. È possibile che la ricrescita inizi già mentre si stanno ancora assumendo le terapie. Con la radioterapia i capelli ricrescono, solitamente, nel giro di 6 mesi dal termine della terapia. Inizialmente i capelli sono molto sottili ma con il tempo la capigliatura torna folta come prima. I “nuovi” capelli possono essere più ricci o più fini di prima e in alcuni casi possono anche essere di colore leggermente diverso.
Solo in alcuni rarissimi casi è possibile che i capelli non ricrescano più o che ricrescano solo a chiazze.
Tutti i trattamenti per la prevenzione della caduta sono, ad oggi sperimentali e non vi è evidenza scientifica certa che siano efficaci. I metodi che sembrano, comunque avere maggiori risultati, sono quelli fisici. Tra questi ci sono le cuffie termiche o cuffia di ghiaccio riduce il flusso di sangue ai follicoli attraverso un processo di vaso costrizione, durante il momento di massima concentrazione del farmaco chemioterapico. In questo modo viene notevolmente limitato l’assorbimento del farmaco al livello cellulare. Questo metodo ha effetti collaterali quali cefalee, disagio fastidio per la sensazione di freddo localizzata. Un metodo analogo ma con meno effetti collaterali sembra essere la scalp cooler o cuffia ipotermica, questa riduce, in modo costante e graduale, la temperatura della testa a circa 4 gradi centigradi. In tutti e due i metodi il successo del trattamento varia molto da paziente a paziente, dal tempo e dal tipo di farmaci chemioterapici assunti.
La cuffia termica è attualmente disponibile solo in alcuni ospedali e centri di eccellenza.
Un modo per nascondere la caduta dei capelli è l’utilizzo di parrucche e toupet che si trovano disponibili in diverse varietà di pettinature e colori. Un bravo parrucchiere di fiducia può dare consigli per la scelta della parrucca più adatta.
Un’altra alternativa molto diffusa per nascondere la perdita dei capelli è l’utilizzo di cappelli di colori e stili differenti e di foulard che sono leggeri e facili da indossare. Prediligere sempre cotone, lana leggera e tessuti misti perché seta e simili hanno tendenza a scivolare facilmente.
Quando i capelli cominciano a ricrescere
Si stima che circa l’80-90% dei pazienti in trattamento con radio e/o chemioterapia riferisca, tra i sintomi più frequenti e invasivi, proprio la fatigue.
Secondo il Comprehensive Cancer Network la fatigue può essere definita come una “una sensazione soggettiva, stressante, persistente di stanchezza o spossatezza correlata al cancro o al suo trattamento, non proporzionale all’attività eseguita, che interferisce con le abituali attività e che spesso non è alleviata dal sonno o dal riposo”.
La fatigue impatta in maniera importante sulla qualità di vita del paziente e in particolar modo sulla capacità di lavorare, sulla possibilità di vivere la quotidianità e sulla vita sessuale con conseguenze sociali ed economiche talvolta devastanti. (Stone et al., 2000)[1]
Sintomi
La maggior parte dei pazienti riferisce, spesso, di non riuscire a svolgere le normali attività della vita quotidiana, come cucinare, riordinare casa, rifare il letto o farsi la doccia e pettinarsi. Si sentono perennemente stanchi, senza forze e senza energie, con la sensazione costante di essere svuotati. A tutto ciò spesso si associa la sensazione di avere la testa vuota o essere colti da vertigini, ritrovarsi con il fiatone anche dopo una leggerissima attività fisica come ad esempio spostarsi da una stanza ad un’altra. Questo tipo di stanchezza sembra, al malato, assolutamente sproporzionata rispetto agli impegni quotidiani.
Vengono riportati anche sintomi quali difficoltà a ricordare le cose, a prestare attenzione e a decidere anche su cose molto banali. Anche il tono dell’umore è coinvolto e i pazienti riferiscono di avere sbalzi d’umore frequenti, si commuovono troppo facilmente; tendono spesso al ritiro sociale e diminuisce il desiderio sessuale.
Cause
Non è facile identificare in modo univoco le cause della fatigue poiché essa è un sintomo moltidimensionale, ossia coinvolge aspetti estremamente diversi tra loro ma, allo stesso tempo strettamente correlati.
La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che la fatigue sembrerebbe correlata a:
A questi aspetti più “fisici” si affiancherebbero aspetti psicologici e comportamentali quali, ad esempio: ansia, depressione, insonnia, diminuita attività fisica e difficoltà ad alimentarsi.
I rimedi esistono?
Fortunatamente si, esistono alcuni rimedi e alcuni interventi che, seppure non eliminano del tutto la fatigue, aiutano ad alleviarne gli effetti più debilitanti.
Come sempre il primo e più importante dei passi da fare è parlarne con il proprio medico e con l’équipe dei curanti. Può essere utile, per iniziare, utilizzare un “diario della fatigue” in cui registrare i momenti della giornata in cui i sintomi sono più debilitanti, questo darà la possibilità di trovare con il medico le strategie di intervento più adatte.
In linea generale la comunità scientifica concorda sul fatto che la fatigue può essere ridotta attraverso l’integrazione di differenti strategie:
L’esercizio fisico
Anche se potrebbe richiedere molto sforzo per alzarsi e muoversi, è importante svolgere una, anche blanda, attività fisica che, di per sé, può ridurre l’affaticamento. Gli studi dimostrano che i malati di cancro che si allenano sono meno stanchi e depressi. Dormono anche meglio dei pazienti che non si allenano.
La dieta
Molti pazienti non sono in grado di mangiare normalmente e perdono peso. Ciò può essere dovuto alla nausea correlata al trattamento, al vomito e alla mancanza di appetito. Chiedi al tuo medico dei consigli nutrizionali o di inviarti a un nutrizionista. Questo esperto può lavorare con te per assicurarti di avere abbastanza calorie, liquidi, proteine e altri nutrienti per aiutare a prevenire l’affaticamento e aumentare l’energia.
Una corretta alimentazione è importante per mantenere un adeguato stato nutrizionale e per contrastare un eventuale calo di peso, prevenendo e riducendo la fatigue.
Il sonno e il riposo
Molte persone affette da cancro soffrono di disturbi del sonno. Tali disturbi possono essere ridotti usando metodi di rilassamento, assumendo caffeina solo al mattino, cercando di mantenere dei ritmi sonno veglia regolari come ad esempio, andare a dormire ed alzarsi sempre alla stessa ora ogni giorno. È importante risparmiare energia e svolgere solo le attività più importanti quando si ha più energia. Muoviti ed esercitati quando sei ben riposato e hai più energia. Sii realistico sui tuoi limiti e non essere duro con te stesso. Inoltre, non essere troppo timido o troppo orgoglioso per accettare l’aiuto. Lascia che gli altri si occupino delle faccende domestiche, che svolgano per te piccole commissioni o che ti accompagnino in macchina quando non te la senti di fare da solo.
Il sostegno psicologico
La fatigue ha anche, nella maggioranza dei casi, una forte componente psicologica. La diagnosi, le terapie, la paura per l’esito della malattia causano spesso ansia, depressione, attacchi di panico, insonnia e sbalzi d’umore. Ciò può essere aggravato da condizioni di disagio psicologico preesistenti. Il supporto psicologico può essere un valido aiuto per affrontare e ridurre i sintomi della fatigue.
La psicoterapia, individuale o di gruppo, può essere un valido strumento per affrontare il disagio psicologico.
Infine, ricordiamo che altri tipi di interventi utili possono essere le tecniche di rilassamento, il biofeedback e la mindfulness.
Empowerment: dalla diagnosi alla cura chi decide cosa?
Capita spesso, quando ci si ammala di avere la sensazione di “perdere il controllo” su di sé e sul proprio corpo. La diagnosi prima e le decisioni in merito alle cure, poi, vengono spesso vissute come un tornado che travolge e spazza via tutte le certezze fino a quel momento acquisite.
Si ha la sensazione di aver perso, e di non riuscire a ritrovare, la propria capacità di empowerment.
Ma che cos’è l’empowerment?
Il dizionario lo definisce come: “la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale”.
Ma come si concilia il controllo sulle proprie scelte con il fatto che ci si trova difronte ad una realtà sconosciuta, con termini che spesso non si conoscono e non si comprendono fino in fondo?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato più volte che la promozione dell’empowerment del paziente è un pre-requisito per la salute, mentre l’attuale Programma di Azione Comunitaria in materia di salute pubblica dichiara che la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali rappresenta uno dei valori fondamentali su cui si basa la strategia comunitaria.
Come dare, in termini pratici, potere al paziente?
Dal punto di vista del medico ciò avviene se e solo se il paziente viene accuratamente informato, fornendogli indicazioni chiare e comprensibili circa la propria diagnosi, i possibili trattamenti, i rischi e i benefici ad essi connessi.
Il “medicalese” delle lettere di dimissioni e dei consensi informati che il paziente è chiamato a firmare prima di qualsiasi intervento, il più delle volte senza capirne il contenuto, dovrebbero divenire esempi di come non comunicare con il paziente. Migliorare lo scambio d’informazione permette di incrementare il livello di interazione medico-paziente, in modo tale che il medico non decida per il paziente, ma con il paziente.
Come fa il paziente ad acquisire questo potere? Innanzitutto pretendendo tutte le informazioni che ritiene necessarie. Chiedere chiarimenti ogni qualvolta i termini utilizzati non siano comprensibili o sufficientemente chiari. Soffermarsi a ragionare con i curanti su cosa possa essere meglio per sé, per la propria qualità di vita, ma anche per la qualità delle cure.
Come si coniugano però necessità di sapere con la paura di sapere?
La diagnosi spesso spaventa e spaventa così tanto da provare in desiderio di nascondere la testa sotto la sabbia e non volerne sapere proprio nulla. “Fate voi. Siete voi i medici decidete per me”, questo pensiero spesso si associa anche alla rabbia e al senso di impotenza. In questi casi, anche se si riesce ad intervenire in modo efficace ed efficiente sul corpo, sulla dimensione fisica della malattia, gli strascichi emotivi e psicologici possono essere di difficile gestione sia per il paziente sia per coloro che lo affiancano.
È ormai noto e condiviso il fatto che, nella cura di qualsiasi patologia, si debba superare la centralità della dimensione fisica della malattia, alla quale deve essere affiancata la sfera emotiva, mentale e spirituale dell’individuo. Le scienze psicologiche collocano al centro di questo schema proprio l’empowerment, che in medicina costituisce uno strumento e al tempo stesso un fine della promozione della salute: un processo il cui obiettivo è quello di potenziare le risorse personali psico-sociali della persona nella gestione della malattia e del proprio percorso di cura, agendo su più livelli: il paziente, la famiglia, il medico o la società.
Il sostegno psicologico è uno dei metodi più efficaci per potenziare tali risorse e per far riscoprire all’individuo le proprie capacità di pensiero ed azione in qualsiasi contesto si trovi ad agire.
Una delle definizioni più efficaci e diffuse della sindrome da burnout è stata introdotta da Maslach già nel ’76. Tale definizione, che continua ad oggi ad essere una delle più utilizzate, definisce il burnout come una sindrome caratterizzata da tre fattori prevalenti:
È una condizione stress lavoro correlato che insorge prevalentemente nelle professioni d’aiuto in cui gli aspetti relazionali della professione intervengo in modo preponderante. La sindrome di burnout è una reazione difensiva, dinamica e in continua evoluzione che si instaura quando nei gruppi di lavoro, così come nel singolo operatore, le richieste dell’ambiente lavorativo sovraccaricano i soggetti coinvolti.
Gli oncologi, e in generale tutto il personale socio-sanitario coinvolto nelle cure dei pazienti oncologici, sarebbero, quindi, tra i più esposti al burnout.
Una delle più recenti ricerche in merito*, ha visto coinvolti 737 oncologi di 41 paesi europei. L’81% dei soggetti rispondenti erano di età inferiore ai 40 anni. I dati emersi, soprattutto per gli oncologi di età inferiore ai 40 anni, pur con notevoli differenze a seconda dell’area geografica di appartenenza, mostra nel 71% dei casi una sindrome da burnout in atto. Andando più nel dettaglio i giovani oncologi manifestano spersonalizzazione nel 50%, esaurimento emozionale nel 45% e ridotta efficacia professionale nel 35%.
Livelli così elevati di stress lavoro-correlato possono portare, secondo i ricercatori, a gravi conseguenze. In particolare ad un notevole incremento di ansia, depressione, abuso di sostanze stupefacenti, alcool e perfino al suicidio.
Tra le cause di insorgenza del burnout i ricercatori concordano sul fatto che, oltre al fattore geografico, alle difficoltà legate all’organizzazione lavorativa e agli eccessivi carichi di lavoro hanno evidenziato, tra i fattori di rischio più rilevanti:
Nel corso degli ultimi 10 anni sono stati attivate, in Europa così come negli USA diversi progetti di gestione e prevenzione del burnout. Alcuni ricercatori hanno condotto una revisione sistematica e impostato una meta analisi degli interventi attuati per ridurre il burnout**.
I risultati, di recente pubblicazione individuano, tra gli interventi attuati, due tipologie prevalenti: interventi diretti al singolo medico e interventi diretti all’organizzazione. Questi ultimi in realtà, sono molto pochi e riguardano piccoli cambiamenti nell’organizzazione lavorativa, ciò nonostante hanno avuto una significativa riduzione di alcuni sintomi di burnout. La meta analisi evidenzia, inoltre, che gli interventi diretti al gruppo di lavoro hanno ottenuto buoni risultati in termini di riduzione del burnout. Tutti gli interventi che miravano a un riequilibrio tra carichi di lavoro e tempo libero, e che prevedevano una maggiore condivisione, in gruppo, delle difficoltà sembrano aver avuto un impatto significativo.